Fu proprio ad Anagni che il barone poté incontrarla di nuovo. Fece in modo che l’incontro risultasse del tutto casuale, ma in realtà lo aveva architettato fin nei minimi dettagli. L’unica cosa che non aveva potuto prevedere era che il cuore della ragazza apparteneva già a un altro uomo.
L’incontro avvenne a casa di un pittore conoscente di cari amici romani. Il barone non volle farsi riconoscere subito, si presentò come un pittore del Nord Europa che voleva usarla come modella per un quadro di carattere sacro. Anna, lusingata, accettò. «Quando volete cominciare?». Il barone, stupito dalla prontezza di spirito della ragazza, disse: «Anche subito mia cara», e anziché presentarsi restituendole il fermaglio che aveva trovato nel bosco, come era previsto che facesse, decise di continuare quel gioco, tenendole nascosti i suoi sentimenti.
Così, con sua sorpresa, il barone cominciò a dipingere un quadro che non aveva immaginato di realizzare. Ma era così inebriato dalle forme di Anna, così deliziato dalla sua presenza, che a un certo punto il desiderio di dipingerla divenne prorompente, decise di prendere in affitto una casa dove potesse lavorare in pace, per tutto il tempo che gli serviva. Quello che doveva essere un semplice ritratto per un soggetto sacro, divenne una composizione. Anna, durante il lavoro, non parlava mai, e lui non osava incalzarla, così felice era di poterla ammirare giorno dopo giorno non solo nel corpo, ma nella sua interezza, nella sua forza d’animo, nella sua ruvida eleganza, che emergeva in ogni pennellata, in ogni sfumatura.
Il pensiero del viaggio svanì. E poiché i suoi occhi di innamorato finirono per innamorarsi anche della città di Anagni, il barone volle comprare casa, per restarvi stabilmente. E così fece: acquistò un palazzo signorile lungo il corso principale. Forse, pensava, avrebbe potuto stabilirsi lì sempre.
Visitò più volte le meraviglie della città, e cominciò a studiare con vivo interesse, non già come turista, gli affreschi della Cripta della Cattedrale, quei meravigliosi dipinti medievali che ogni volta riempivano i suoi occhi di stupore e mistero. Ma ciò che più desiderava era Anna, la sua amata, la sua musa, per la quale provava un sentimento che spesso si sorprendeva a somigliare al sentimento d’amore cortese di Dante Alighieri per la sua Beatrice. E come Beatrice, Anna era fuggente, scostante, distratta. Era la sua modella, certo, la vedeva ogni giorno – Dante non avrebbe potuto sperare tanto – ma tra di loro restava una distanza incolmabile. Perché non le aveva ancora detto del fermaglio?
Quando non posava per lui, il barone la osservava di nascosto mentre tornava a casa con la cesta del bucato, mentre rideva con le sue amiche, mentre usciva dalla messa e scendeva in piazza a prendere l’acqua alla fontana. Osservandola, il barone componeva poesie struggenti, la invocava nella sua mente: «Anna, meraviglia del creato, Anna, dai seni prosperosi, Anna, dalla pelle di organza, Anna mia amata, piacere dei miei giorni, tormento delle mie notti insonni, dolore e sollievo del mio corpo mortale, luce dell’anima mia».
Arrivò presto l’inverno, e il barone dovette tornare nella sua terra natale per sbrigare faccende legate alle sue proprietà. Poiché il quadro non era ancora finito, promise che sarebbe tornato quanto prima. E così fu. Nel marzo dell’anno seguente partì di nuovo per l’Italia, desideroso del bel tempo, della bella città di Anagni, ma soprattutto di rivedere Anna, per portare a termine il suo quadro, e per dichiararle finalmente il suo amore.
Quando la ebbe di nuovo davanti, nello studio della sua nuova casa, sentì un brivido. Con la mano nella tasca, stringeva tra le dita il fermaglio a forma di farfalla. Ma era imbarazzato, non trovava le parole. Fu Anna a interrompere il silenzio. «Come procede il vostro lavoro? Siete ancora dell’idea che la sua modella non possa vedere la tela finché non sia compiuta?» disse lei ironica.
«Non sarebbe difficile per voi farmi cambiare idea all’istante» disse il barone. Rimase a guardarla un attimo, arrossendo, poi tornò in sé e disse: «Comunque sia, vogliamo iniziare il lavoro?»
«Signor barone» disse Anna in tono di scuse. Era rimasta in soprabito come chi sia venuto solo per una visita fugace. Il barone se n’era accorto, ma era troppo confuso per governare la situazione. Anna continuò. «Mi rincresce molto dirle che non potrò più posare per lei».
«Come?»
«Vedete, mi vergogno un po’ a dirlo, ma il mio futuro marito non vuole che io continui a lavorare. Ecco, sono venuta anche a portarvi questo» gli porse una busta che il barone prese con le mani tremanti. «È l’invito per il mio matrimonio, ci teniamo molto che venga anche lei».
Non sarebbe andato. Per la delusione, il rammarico di non aver agito prima, il dolore, si ammalò. Ebbe una febbre alta che durò due settimane intere. Quando si riprese, sembrava trasformato. Era dimagrito e i suoi occhi, così vivi un tempo, sembravano ora svuotati di ogni gioia e speranza. Avrebbe voluto morire. Ma non era così coraggioso da riuscire a togliersi la vita. Così, nella follia di un innamorato deluso, credette che la cosa migliore da fare fosse uccidere, dentro di sé, la speranza del suo amore, e così fece: al posto dei quadri che avrebbero celebrato la sua gioia, fece affiggere sul muro della sua casa le lapidi che ne decretassero la morte. Su lastre di marmo, anziché le sue poesie speranzose, piene di desiderio, fece iscrivere versi di addio e morte nella sua lingua di origine, in modo che i cittadini di Anagni non potessero capirne il significato. Di propria mano dipinse il ritratto di Anna, la fece bella come era, ma la incorniciò come fosse una immagine funebre. Dopodiché si barricò dentro casa, e nessuno lo vide più.
Alcuni avrebbero giurato che fosse scomparso tra le stanze della sua abitazione, trasformandosi nel fantasma di se stesso. Alcuni avrebbero detto che il suo spirito fosse divenuto anch’esso un dipinto sul muro, come il Dorian Gray di Oscar Wilde. Altri avrebbero raccontato di aver visto il barone, un giorno di inizio autunno, partire all’alba su una carrozza nera, diretto a nord. Non avrebbe mai più messo piede ad Anagni, la città dove aveva conosciuto l’amore, ma che suo malgrado era stata il teatro della sua morte interiore, a causa di una fanciulla che il destino gli aveva impedito di amare.
Nessuno avrebbe potuto sapere che il barone di Barnekow d’un tratto chiese al cocchiere di fermarsi. Scese. L’alba rischiarava il bosco e faceva scintillare il fiume di mille riflessi luminosi. Per un po’ il barone immaginò che avrebbe potuto ritrovare il luogo di quel primo incontro. Ma era impossibile. Così prese il fermaglio dalla tasca, lo adagiò sul fiume, e lasciò che la corrente lo portasse via.